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A PRIVATE WAR (2018)

  • Immagine del redattore: Annamaria Niccoli
    Annamaria Niccoli
  • 28 ott 2019
  • Tempo di lettura: 3 min

A PRIVATE WAR (2018) 

Film di Matthew Heinemann con Rosamunde Pike, Jamie Dorman, Tom Hollander, Raad Rawi. Il film è la biografia di Mary Colvin reporter guerra per il Sunday Times dal 1985 fino al 2012, insieme al suo fotografo di fiducia Remi Ochilik. Il regista ha deciso di raccontare la guerra degli Stati Uniti in Medio Oriente tramite gli occhi della reporter. La giornalista aveva raccontato la guerra di, Cecenia, Kosovo, Sierra Leone, Zimbabwe, Sri Lanka, Timor Est, Iraq, primavera araba, Libia e Siria, dove è morta, in un attentato nel 2012,  insieme al suo fotografo; attentato molto probabilmente voluto da Assad, che dalla giornalista era stato incolpato di aver dato l’ordine di effettuare bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile, usando anche le armi chimiche, vietate dalle convenzioni ONU, sottoscritte a Ginevra. Oltretutto vennero denunciate altri orrori di guerra che fanno intuire come i conflitti militari in questi anni siano diventati molto violenti, sanguinosi, totalmente noncuranti dell’incolumità dei civili. È assolutamente falso quanto vengono dichiarati dai governi attacchi “da distruzione chirurgica”, perché, ben che vada, sotto i ferri chirurgici vanno a finirci solo i civili indifesi. I film studia molto gli effetti psicologici e la sindrome post traumatica causati dalla guerra. Tutte le guerre sono cattive e devastanti, pare che la Siria non abbia eguali in brutalità, dove le vere vittime civili della guerra sono i bambini e le donne, usate come armi di ritorsione verso i governi occidentali intervenuti nel conflitto. Mathew Heineman (noto documentarista, in gara per i premi Oscar) dalle sue motivazione per questa opera cinematografica: “il giornalismo è sotto attacco e sempre più polarizzato da notizie inventate che si mascherano da vero giornalismo” e dalle “minaccia che ciò pone alla società”. Obiettivo raggiunto del film è quella di descrivere cosa sia il lavoro di uno reporter di guerra, è la denuncia. Viene fatta una netta differenza tra chi parte per la guerra, armato fino ai denti di armi, come i soldati; ed invece i fotografi e giornalisti di guerra che partendo per la stessa missione sono armati solo di penna, taccuino, PC e macchina fotografica. Il regista mette in evidenza quale fosse il vero carattere dalla Colvin, ossia descrivere il dolore, la fame, le sofferenze dei civili, senza fare distinzione di razza, religione e politico; perché questo deve essere il compito di un vero reporter, senza che i governi dettino o traccino le linee guida di quello che deve essere scritto negli articoli, di quello che deve conoscere il lettore, risultando così lo scritto del reporter assimilato alla “versione ufficiale.” Per questo la Colvin lotterà molto con il suo direttore del Sundy Times, perché per lei per tutti il giornalista deve raccontare quel che vede ed essere imparziale dal racconto, non essere assoggetta al potere o il potente di turno. Il regista sin dal primo, fino all’ultimo, ha voluto descrivere il campo di guerra siriano così come fosse, con l’unico intento di trasformare quelle immagini come un vero pugno nello stomaco dello spettatore, mettendolo a conoscenza di quale fosse la crudele verità di quello che sta succedendo in Siria. Non è un campo di guerra ricostruito sul set ma è quel che vedono e vivono tutti i giorni, da tanti anni, i siriani. La Siria, una nazione ricca su cui convivevano varie etnie, varie comunità religiose; ora tutto è distrutto e quei palazzi ridotti in ruderi, che vediamo durante tutto il film, sono il simbolo di come è ridotta in questo momento questo Stato. “A private war” lo definisco un ottimo film documentaristico, fra i migliori degli ultimi dieci anni, da vedere più volte, sia per conoscere una giornalista, la vita di un reporter e che finalmente fa aprire gli occhi su quale realtà stiamo vivendo. Fa scoprire, senza filtri, cos’è veramente una guerra, vista però dalla parte delle vittime.

 
 
 

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